I volontari in servizio civile quest’anno (2)

Oumaima Saikouk

Oumaima Saikouk (Progetto CIPSI-COSPE, Senegal: “Dignità e pari opportunità per le donne di Pikine Est)

OUMAIMA: RADICI IN VIAGGIO

La prima volta che l’ho vista, ho notato la sua eleganza. Quando ci ho parlato, sul bordo di una finestra, con i colori del tramonto come sfondo, ho scoperto la positività, l’energia, la riflessione e l’ascolto che possiede. Oumaima è un mondo da scoprire, in costante evoluzione; è un’esplosione di carica positiva; è un’anima bella, un cuore aperto e una coscienza profonda.

Prova, prova… Sta registrando? Sì…

Parlami di te, di quello che vuoi.

Allora il mio nome intero è Oumaima, dalla radice ‘Um dall’arabo che significa mamma, quindi piccola mamma. In effetti mi sento un po’ una piccola mamma perché sono la classica che ti chiede “Hai dormito?” ma soprattutto “Hai mangiato?”. In molti contesti faccio proprio da mamma. Tante volte però mi piace anche farmi coccolare, come fossi una bimba. Quindi una piccola mamma ci sta, è un po’ un contrasto, un ossimoro carino.

Ho 25 anni ma tanti, quasi tutti, mi danno meno e la cosa mi fa felice perché spero che continui così anche fino ai 40 anni. Sono originaria del Marocco, sono nata a Casablanca. Ho vissuto a Casablanca fino ai 10 anni e poi mi sono trasferita con mia mamma e mio fratello per raggiungere mio papà a Genova.

Com’è stato trasferirti in Italia?

Arrivata in Italia mi è sembrato tutto molto strano. Vieni sradicato da un posto e devi ripiantare le tue radici in un altro, però quello che ho imparato è stato proprio trovare un terreno fertile ovunque. Di modo che questo albero continui a crescere e ad essere sempre più ricco di fiori e frutti.

Cerco di portare la mia voglia di interazione ovunque io vada perché secondo me è essenziale, la preferisco alla parola integrazione che sembra una cosa molto forzata. Saper interagire, saper dare del mio e saper assorbire del tuo, credo che sia una cosa essenziale che ho visto mancare tantissimo negli ultimi tempi. Per me è stato molto più facile inserirmi in una società completamente diversa dalla mia, cultura diversa, religione diversa, lingua diversa, gastronomia diversa (ma estremamente piacevole). Ed è stato essenziale, in questo, il ruolo dei maestri e professori. Ricordo ancora che sono entrata da quella porta alle elementari e tutti mi guardavano stupiti perché ero l’unica bambina straniera. Le maestre sono state eccezionali nel far provare agli altri la curiosità, e questo mi ha aiutato tantissimo. Così non ho provato più vergogna, ero sempre con la mano alzata e in 4 mesi ho imparato l’italiano senza difficoltà. Quell’interazione che c’era in classe, quella condivisione, collaborazione, curiosità degli altri, il non pregiudizio. Tutto questo ha fatto di me quella che sono oggi. Perché probabilmente se l’atteggiamento fosse stato diverso sarei stata molto più chiusa, magari anche da parte mia ci sarebbe stato pregiudizio, magari avrei fatto un vittimismo continuamente perché uno che subisce, subisce, subisce poi si sente sempre il capro espiatorio anche quando non lo è.

E poi…

Ho fatto il liceo linguistico ed ho studiato francese, spagnolo e inglese. Assorbo in maniera incredibile gli accenti. Molti italiani mi dicono “Parli bene l’italiano”, e a volte simpaticamente rispondo “Anche tu” perché non è così scontato che un italiano parli bene l’italiano! Poi gli studi sono venuti da sé. Volevo studiare in Francia ma per una serie di imprevisti, non mi è stato possibile. Nonostante avessi passato tanto tempo a prepararmi per quello e ad immaginarmi in un certo posto, non mi sono demoralizzata e ho selezionato l’Università italiana prima in graduatoria, iscrivendomi a scienze Internazionali Diplomatiche a Gorizia. È stata un’esperienza molto bella, compresa quella dell’Erasmus ad Alcalà de Henares, vicino a Madrid, che mi ha cambiato totalmente.

In che senso?

Io ero molto aperta, parlavo con tutti, parlerei anche con un muro se mi mettessi davanti a un muro, non ho problemi. Però ero molto rigida su tante cose personali. Se non si poteva fare quella cosa, io non la toccavo, senza neanche discutere. Invece poi ho imparato a mettere in questione tante cose, a ragionare, a chiedermi “È giusto o non è giusto? Perché si deve fare? Dove e come è scritto? Cosa si intende con quello?”. E questo perché ho conosciuto molte persone da tutto il mondo. L’incontro ti arricchisce e ti porta a farti più domande, sulla vita, sul perché delle cose. Più vado avanti e più mi metto in discussione. Una volta mi impuntavo ed avevo ragione io.

E sei riuscita a riportare a casa quello che avevi imparato in Spagna?

Sì, io sono tornata completamente cambiata. Ho visto anche persone che, dopo l’Erasmus, sono tornate alla vita di sempre. Io no, vedevo tutti e tutto in maniera diversa.

Ed è stato difficile ritrovarti in questa nuova te?

No, è stato estremamente piacevole. Mi piace la persona che sono oggi. Anche se ovviamente, essendo io inquadrata, anche le amiche di cui mi ero circondata lo erano. Quindi, quando ad esempio, mi sentivano fare determinati discorsi, mi dicevano “oh Umi, ma tu chi sei? Però ci piace questa nuova te”. Così, in qualche modo, inizi a far vedere anche agli altri le cose in maniera diversa.

È uno spunto anche per loro no?

Esatto. E questo è quello che mi piace. Mi piace trasmettere, mi piace riflettere e far riflettere gli altri. E tante volte, quando fai vedere un’altra prospettiva, funziona. La verità assoluta non esiste e quindi è importante, secondo me, riflettere su questo.

E senti di voler continuare a mettere radici in posti diversi o ti piacerebbe fermarti in un posto in particolare?

Mai. Mai fermarsi, non riesco a fermarmi, non ci riesco proprio. È più forte di me. Sono sempre stata molto attiva: radio, teatro, associazioni, volontariato, mille cose. Alla prima occasione, sono andata in Erasmus e a fare la tesi fuori. Più mi muovo, meglio sto. Vorrei continuare a spostarmi. Perché è un continuo arricchirsi. Sembra quasi una dipendenza.

E riesci a mantenere le radici che hai lasciato?

È come dei semini che lasci e poi torni e vedi se sono cresciuti oppure torni e trovi che sono marci.

Dipende se nel frattempo hai annaffiato o meno…

Brava. Dipende se hai annaffiato, io sono molto probabilmente una persona da pianta grassa. Nel senso che ho bisogno che tu come pianta resista. Non sono una che ti assilla scrivendoti tutti i giorni perché preferisco viverti. Io ho sia amiche che sono sempre in giro sia amiche che sono rimaste ferme, ma quando ci rivediamo è come se il tempo non fosse passato.

E tu riesci a prendere le varie te, dei vari posti, delle varie radici, e a metterle insieme in quella che sei, o ti capita magari che nel posto nuovo in cui vai ti cali talmente in quel contesto che ti scordi le altre te?

Domanda interessante. È come una corrente d’acqua che va ma l’essenza è quella. Ti adatti, però quel qualcosa di te lo riconoscono gli amici di Genova come gli amici di Gorizia.

E chi non ti è riuscito a conoscere, come ti descriverebbe?

Non lo so, sicuramente come una chiacchierona, una persona solare, che porta allegria. Poco tempo fa, dopo essere passata a salutare un mio amico in una giornata per lui stressante, mi hanno riferito che si è sentito più rilassato dopo avermi visto perché gli avevo messo allegria. E questa cosa mi ha fatto ridere il cuore, è questo ciò che mi piace. Spero di mettere allegria alle persone. Sei lì giù triste e io vengo e ti tiro su. Altri amici mi hanno detto che all’inizio erano un po’ in soggezione perché pensavano fossi cattiva e severa. Io?! La cosa essenziale per me è far sentire gli altri a proprio agio, questo è importantissimo. Soggezione? No! Prendiamola e accantoniamola.

Dopo l’esperienza del servizio civile come pensi di tornare?

Con più risposte o con più domande. È come un puzzle che stai componendo senza sapere quello che succederà. O magari nello stesso puzzle c’è qualcosa che hai già composto, ma prendi e rimetti altri pezzi che ti sembrano più belli. Spero che questa esperienza mi arricchisca, mi faccia vedere e capire tante cose. Però cerco di non avere aspettative; vado, imparo, imparo, imparo, reagisco e vediamo cosa succede.

Qual è la cosa che ti piacerebbe portare di te lì?

Secondo me la sete di interagire, la sete di conoscere e la voglia di mettere a proprio agio le persone, di farle sentire rilassate, contente, felici in quel momento. La voglia di togliere ogni ansia, ogni stress. La mia filosofia di vita è “positività attrae positività, negatività attrae negatività”. Quindi la voglia di portare felicità, positività. Sono estremamente positiva, a volte anche troppo, sono sagittario.

Io pure! Che giorno?

26 Novembre. Io 25!

Da questo momento abbiamo chiuso il registratore, ed ho scoperto le caratteristiche del mio segno, il mio ascendente e quanto Umi riesca veramente a mettere a proprio agio chi ha davanti. In bocca al lupo per questa nuova esperienza e auguri per le radici che pianterai, ancora e ancora.

A cura di Valentina Scala

Michelangelo Caserta

Michelangelo Caserta (Progetto Edu-dac, Senegal: “Salute: stop malaria e consultorio femminile a Pikine Est”)

MICHELANGELO: PRONTO ALL’AZIONE

“L’unico posto che mi manca è quello in cui non sono ancora stato”. Così Michelangelo, 24 anni, classico “primo della classe” a cui piace essere informato ed aggiornato, mi ha stupita, rivelandosi pronto all’azione. Beh, previa progettazione!

Ciao Michelangelo, iniziamo. Come ti definiresti?

Dunque, mi piace definirmi “sradicato”.Sono nato a Napoli, da genitori napoletani. Ho vissuto a Siena dai 4 ai 19 anni e poi ancora a Roma dai 19 anni ad oggi. Questa assenza di radici e di legami, questo essere un migrante interno libero, penso mi abbia aperto alla diversità, alle differenze del mondo. Di fatto, non mi sento solo italiano. Mi sento…di più! Mi sembra di dover sfruttare il mio tempo per conoscere nuove realtà, per poter dare il mio contributo nei posti in cui andrò. Vorrei vivere in un posto per un certo lungo periodo, entrare in quella società, non sentendomi più straniero per quanto possibile.

Ci racconti il tuo percorso di studi?

Dunque, ho frequentato il liceo linguistico e ho proseguito all’università con mediazione linguistica interculturale. Con le lingue ho iniziato ad aprirmi al mondo, ma sono convinto siano solo un mezzo. Per questo, una volta finita la triennale, ho deciso di proseguire in Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, andando a delineare il mio percorso ed i miei interessi, sempre più chiari, nei confronti dell’Africa e della migrazione. Contemporaneamente all’università, dai 19 ai 24 anni, ho frequentato il Collegio Universitario dei Cavalieri del lavoro Lamaro Pozzani, nel quale ho avuto accesso a corsi di formazione, di lingua e ad incontri settimanali con personalità del mondo politico, istituzionale, giornalistico ed imprenditoriale. Questa opportunità mi ha permesso di fare esperienza di comunità e di confronto.

Quando hai iniziato ad interessarti all’Africa e alle migrazioni?

Durante il primo semestre del primo anno di università, grazie ad un seminario tenuto da Chiara Peri del Centro Astalli, sede italiana del servizio dei gesuiti per i rifugiati. Mi ha fatto scoprire questa realtà, della quale, prima di quel giorno, non sapevo quasi niente. Ho dunque iniziato ad interessarmi, a studiare, a seguire. Mi sono appassionato all’argomento, tanto che questo è andato a definire le mie successive scelte di percorso e di vita. Ho sviluppato la tesi di laurea triennale andando a mappare e descrivere le rotte migratorie dall’Africa all’Italia. Nella tesi di laurea magistrale ho invece analizzato l’azione esterna dell’Unione Europea in Africa in ambito di immigrazione. Da quel giorno ho inoltre provato a rendermi utile.

In che modo hai provato a renderti utile?

Dal 2015 mi sono dedicato a diverse iniziative di volontariato. Inizialmente con i salesiani della parrocchia del sacro Cuore di Roma, i quali prestano la loro opera ai senza fissa dimora della stazione di Roma Termini, ai quali si vogliono garantire dei pasti, certo, ma anche una semplice chiacchierata. Ho poi prestato servizio all’accettazione della mensa del Centro Astalli. L’esperienza più forte è però stata quella che ho vissuto nel 2019, con l’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII che si occupa dei senza fissa dimora e delle vittime della tratta degli esseri umani. In particolare l’obiettivo è quello di offrire ascolto e una possibile via di uscita, in una casa famiglia, con il progetto di imparare l’italiano e inserirsi nella società anche dal punto di vista lavorativo. Ho sentito storie drammatiche e pesanti, a volte è stato frustrante perché magari parlavo per sei mesi con la stessa persona che alla fine, però, non veniva via. È stata per me una grande occasione di crescita. Ho inoltre partecipato ad un progetto di supporto scolastico per bambini stranieri nati o cresciuti in Italia, con la comunità di Sant’Egidio. Personalmente ho seguito una bambina originaria delle Filippine ed una dello Sri Lanka, è stato molto bello, mi sono rimaste nel cuore. Ultimamente ho anche lavorato come dialogatore face to face per Amnesty International, cosa che mi ha permesso di mettermi in gioco. Dovevo fermare persone a caso, spiegare loro la realtà dell’associazione e convincerle a creare un rapporto di fiducia con Amnesty, e a sostenerla. Tale compito ha richiesto tanta pazienza, ironia, credibilità. Ho dovuto provare ad essere convincente, e ad avere forse, addirittura, coraggio.

Qual è, dunque, il tuo progetto, il tuo sogno?

In futuro mi vedo probabilmente come cooperante. Il mio sogno sarebbe stare nei campi profughi, gestire corridoi umanitari, lavorare per garantire la protezione dei diritti umani, impegnarmi nel reinserimento. Fare in modo che si possa arrivare in un posto sicuro, in modo sicuro e legale. Il servizio civile universale, esempio di equità sociale ed ottima opportunità per i giovani, sarà per me un modo per fare esperienza di cooperazione e capire se potrebbe essere davvero la mia strada.

E da parte mia, Mik, ti auguro che quest’anno ti possa aiutare a delineare chi sei e chi sarai, che sia l’inizio della realizzazione dei tuoi grandi progetti.

E sono sicura che nel tuo piccolo lo farai, riuscirai a cambiare il mondo.

A cura di Elisa Dachena

Cristina Cascarano

Cristina Cascarano (Progetto Cevi, Costa D’Avorio: “Sostegno scolastico per i minori svantaggiati di Daloa”)

OCCHI CHE BRILLANO DI AFRICA

Cristina è una giovane milanese di 27 anni. Mentre mi racconta che partirà per la Costa d’Avorio con il servizio civile, le brillano gli occhi per l’entusiasmo. La sua intervista mi ha permesso – come suggerisce l’etimologia del termine – di “inter visere”, cioè di vedere attraverso la superficie. Con questo incontro ho quindi scoperto una persona che non nasconde le sue piccole paure, una persona consapevole, una persona con una grande forza e determinata di assumersi le responsabilità che sente in quanto cittadina del mondo. In poche parole, una persona umana.

Cominciamo con una domanda semplice: cosa hai studiato?

In triennale scienze sociali, mentre in magistrale programmazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali. Il problema della mia magistrale è che non ha una figura professionale di riferimento e sto cercando di crearmela adesso. Quindi il servizio civile è per me anche un’occasione per continuare a formarmi e capire meglio quali sono i miei punti di forza e di debolezza.

Perché hai scelto di fare il servizio civile?

Per mettermi alla prova e fare un’esperienza di lungo periodo. La mia esperienza più lunga è stato un tirocinio curriculare di sei mesi presso un centro diurno di rifugiati richiedenti asilo, poi ho avuto delle brevi esperienze di volontariato. Vorrei trovare un lavoro nel sociale e credo che il servizio civile mi aiuterà a capire se quello che ho scelto è il percorso giusto per me. Poi, sono innamorata dell’antropologia culturale: è stata quella che mi ha fatto aprire gli occhi, cambiare la mia visione del mondo e scoprire che non esiste un’unica verità né lenti univoche attraverso cui vedere il mondo. Lo scambio interculturale tra idee e visioni diverse sarà sicuramente per me un momento di arricchimento e spero possa essere utile anche per le persone che incontrerò.

Come ti senti all’idea di partire?

Ammetto che un po’ di ansia c’è. Io in realtà sono stata ripescata, ma appena mi hanno preso per la Costa d’Avorio ero euforica. Quando ho iniziato a informarmi sul contesto, ho visto che era un po’ diverso da quello che avevo scelto, ovvero la Cambogia. Conosco poco dell’Africa, quindi ho un po’ di paura, però allo stesso tempo ne sono entusiasta. E poi cerco di partire lasciando a casa le aspettative, preferisco lasciarmi un po’ carta bianca e vedere lì come si svilupperà.

Cosa speri di portare in Costa d’Avorio, un cambiamento?

Il fatto che non abbia già avuto un’esperienza di lungo periodo da una parte lo vedo come un punto di debolezza perché significa non avere certe competenze professionali; d’altra parte, mi dà il vantaggio di pensare fuori dagli schemi. Spero che il mio sguardo esterno possa essere utile.

Cosa farai sul campo?

Il progetto è rivolto alla scolarizzazione dei minori. Per il momento, non sappiamo esattamente di cosa ci occuperemo. So che il problema principale in loco è che i bambini devono essere iscritti all’anagrafe per poter frequentare la scuola, cosa che però presenta un costo e disincentiva le famiglie; quindi uno degli obiettivi primari sarà incentivare le famiglie a iscrivere i propri figli all’anagrafe. In secondo luogo, mi è stato proposto di collaborare alla scrittura di un progetto sui minori detenuti vista la mia previa esperienza con una ONG in Brasile che si occupa della riabilitazione dei detenuti. Non nego di essere un po’ preoccupata perché il sistema carcerario della Costa d’Avorio è un contesto complicato, dove i diritti umani non sono rispettati e quindi potrei avere bisogno di un supporto. Allo stesso tempo, sono mansioni stimolanti per me. Osservare il sistema carcerario sia in Italia che in Brasile è stato molto interessante, mi ha dato molti spunti di riflessione e mi ha fatto rendere conto di quanto non abbiamo tutti gli stessi strumenti alla nascita. Pensiamo di essere liberi, di essere un libro bianco e poter scrivere la nostra storia, ma in realtà non è così. Poi mi sono anche resa conto di quanto sia importante agevolare uno scambio con la società civile una volta terminata la pena e favorire il reinserimento. In Costa d’Avorio questo è complicato perché le famiglie non accettano gli ex detenuti. Quindi l’idea di poter partecipare alla scrittura di un progetto del genere mi interessa tantissimo.

Andando in Costa d’Avorio cambierai completamente il tuo contesto e la tua prospettiva di vita. Come pensi che reagirai inizialmente? E come pensi reagirai una volta rientrata in Italia tra un anno?

Mi reputo una persona che si sa adattare. Ho viaggiato molto, soprattutto nel Sud-Est asiatico, in contesti completamente diversi dal nostro. Le difficoltà legate allo stile di vita come può essere la mancanza di acqua corrente per qualche giorno o quella di internet non mi spaventa. Mi preoccupano però due cose: lo shock culturale che potrei provare all’inizio e il fatto di vedere realtà che mi facciano sentire talmente male da avere bisogno di un supporto. D’altra parte, non vedo alcun problema nel chiedere aiuto: abbiamo la psicologa, le compagne di viaggio, dunque non siamo soli. Più che altro, secondo me, potrà essere più difficile il ritorno: penso che se mi troverò bene e riuscirò a trovare una mia dimensione lì, sarà difficilissimo rientrare. Sto cercando di partire con la mente più tranquilla possibile e di lasciare a casa le mie aspettative. Poi, per esempio, non conosco il francese, ma mi sono sempre lanciata, anche sbagliando tutto, quindi confido che andrà bene.

Tu che visione hai del mondo?

Credo che siamo sempre più divisi, alienati ed egoisti. C’è poco senso comunitario, manca una sorta di giustizia sociale. Credo tanto nella redistribuzione delle risorse. Noi, mondo occidentale, abbiamo depredato per secoli, quindi sarebbe necessaria restituire ciò che abbiamo preso e ciò che ci ha reso così grandi oggi. Questo è un altro dei motivi per cui ho scelto di fare il servizio civile fuori dall’Italia, per un avere confronto con culture diverse e sentirmi parte di una comunità. A livello economico, credo che siamo focalizzati sulla massimizzazione del profitto, dimenticandoci dell’aspetto umano.

E cosa cambieresti di questo mondo?

Mi piacerebbe che ci fosse più collaborazione tra Stati, maggior condivisione delle problematiche, maggior spirito di solidarietà. Paradossalmente, oggi siamo sempre più alienati nonostante non siamo mai stati così interconnessi a livello globale. Mi piacerebbe quindi che non ci fosse solo un’interazione di tipo economico, ma anche una maggiore responsabilità reciproca. Poi mi piacerebbe che la società civile riuscisse maggiormente a far sentire la propria voce. Già adesso con i movimenti di protesta che si stanno organizzando, come il Friday for future, qualcosa inizia a farsi sentire e mi auguro che si continui su questa strada.

Ti definiresti una cittadina responsabile?

Questo mondo lo stiamo lasciando a chi verrà, quindi credo sia importante fare qualcosa qui e oggi. Nel mio piccolo, cerco di fare il possibile, di assumermi le mie responsabilità: fare la differenziata, per esempio, e cercare di persuadere chi mi sta intorno a riconoscere le proprie responsabilità e a cambiare i propri comportamenti. Mentre quando ero piccola non lo facevo, ora quando si tratta di difendere un valore in cui credo mi metto molto in gioco. Cerco di trasmettere quello in cui credo, di educare, nel senso di spiegare e trasmettere un altro punto di vista.

A cura di Marta Bellofatto

Monica Savianu

Monica Savianu (Progetto EDU-DAC, Senegal: “Salute: Stop malaria e consultorio femminile a Pikine Est”)

HO IMPARATO A VIAGGIARE

Capelli corti, occhi grandi e zigomi pronunciati. Monica mi accoglie con un grandissimo sorriso che mi mette subito a mio agio. Anche quando mi parla di sé è raggiante e i suoi racconti, così come la sua vita, mi incuriosiscono. Forse abbiamo più cose in comune di quanto pensassi.

Ciao Monica, ci racconti chi sei e da dove vieni?

Sono Savianu Monica Sînziana, ho 24 anni e vengo dalla Romania. Sono nata e cresciuta lì. A 9 anni mi sono spostata in Italia con la mia famiglia. Ci siamo trasferiti in Veneto, precisamente a Motta di Livenza, in provincia di Treviso, che è un posticino molto tranquillo di 12mila abitanti nella pianura padana. Mi sono appena laureata in psicologia e sono tornata da poco a casa con mamma.

Ti ricordi com’è stata per te l’esperienza dello spostamento dalla Romania all’Italia, com’è stato vivere senza i tuoi genitori?

Vivere senza i miei genitori è stato abbastanza difficile, perché quando loro sono partiti io avevo 4 anni e mezzo e sono stata da sola fino ai 6 anni. Ho sentito molto la loro mancanza, anche perché sono sempre stata la piccola di casa. Devo dire che è stata un’esperienza abbastanza pesante, come è normale che sia per un bambino che non ha vicino i suoi genitori. Un’altra cosa che ricordo riguarda la natura. Per i primi anni di vita vivevo in questa casa sul cucuzzolo di una montagna, in mezzo al verde, quindi per me era naturale e normale stare scalza, arrampicarmi sugli alberi e avere certe libertà. Una volta arrivata qui, ho sentito proprio la differenza perché siamo andati ad abitare in un appartamento al quarto piano, in una mansardina di cui di verde c’era ben poco e mi sentivo un po’costretta. Non è stato molto facile inizialmente, motivo per cui ho sempre un po’ temuto fare viaggi grandi. Pensavo, in un modo ingenuo, che significasse questo viaggiare. Fortunatamente, grazie all’esperienza di mia sorella, che fin da piccola ha sempre viaggiato di più, verso i 17-18 anni ho capito che in realtà mi sarei voluta mettere in gioco anche io, provare, sperimentare dei viaggi.

Quindi cosa significa per te viaggiare?

Ora la mia idea di viaggio è cambiata rispetto a quando ero piccola. Prima per me un viaggio significava sradicarsi, modificare in modo abbastanza “aggressivo” il proprio mondo e quindi l’ho sempre vista come una cosa per certi versi negativa. Poi, crescendo, ho capito che viaggiare dà moltissimo. Con il mio spostamento dalla Romania ho imparato a stare in un altro posto e ho avuto delle esperienze bellissime. Conoscendo in una cultura differente, imparando una nuova lingua, ho avuto la possibilità di capire quali sono le tradizioni di questo paese, cose che poi mi hanno portato ad essere sempre più curiosa anche rispetto a tutti gli altri paesi. Si è modificata così la mia idea, perché adesso sono molto più curiosa di scoprire qualsiasi posto. Quindi perché non partire dall’Africa!

Qual è stato per te un viaggio memorabile? E un viaggio che vorresti fare?

Il primo viaggio memorabile è stato quello a Bordeaux. Memorabile proprio perché mi ha fatto rendere conto del fatto che viaggiare da soli è una cosa stupenda. Ovviamente anche per i luoghi: Bordeaux è una città bellissima che vorrei visitare almeno una volta all’anno, anche i vini di Bordeaux sono molto buoni! Un viaggio che mi piacerebbe molto fare riguarda il sud est asiatico. Mi piacerebbe proprio girarmelo tutto. Cioè prendere, zaino in spalla, e visitarmi con calma tutto quanto.

C’è un momento in cui hai capito di voler studiare psicologia?

Partiamo dalle superiori. Io ho fatto il turistico e quindi diciamo che mi è sempre piaciuta la diversità, però non sono mai stata abbastanza coraggiosa per mettere in atto le cose che studiavo. Alle superiori comunque studiavamo psicologia, che mi è sempre piaciuta, è sempre stata una cosa che mi sarebbe interessato approfondire. All’epoca però già lavoravo. Ho lasciato la cosa un po’ in sospeso perché ho lavorato per due anni, prima di iniziare l’università. Ho fatto un anno in un bar, poi un altro anno come impiegata in un’azienda. Poi, grazie a quest’ultima esperienza, che mi ha fatto crescere moltissimo e mi ha dato tanto, ho capito che non mi volevo fermare lì, che mi sarebbe piaciuto riprendere in mano le cose che avevo lasciato in sospeso e ho deciso di iniziare l’università. Molto impaurita, devo ammetterlo, perché non studiavo da tanto e non sapevo bene da dove partire e in che modo farlo. Però poi è andato tutto per il verso giusto! Sono molto felice di questa scelta, perché credo sia una cosa mia, che mi rappresenta, quindi ne vado veramente fiera.

E adesso, invece, i prossimi step quali saranno?

Per ora ho di nuovo deciso di mettere in sospeso la questione studi, perché sono una persona molto dinamica, ho sempre molti interessi, faccio sempre moltissime cose e sono sicura della mia scelta di psicologia e soprattutto di quello che sarà la mia scelta di magistrale. Ci sono alcuni aspetti che, però, mi interessano molto e che non vorrei tagliar fuori. Quindi vorrei sperimentare alcune cose. Ad esempio, a me piace molto l’antropologia e non mi è possibile fare una magistrale che metta insieme queste due cose. Quindi ho deciso di sperimentare sul campo l’antropologia, per capire magari davvero a tutto tondo quale sia la mia effettiva strada. Quest’anno vuole essere un mettermi alla prova.

Mi sembra di capire che hai tanti interessi, ce n’è qualcuno in particolare?

Sono molto interessata al mondo della meditazione e dello yoga, li pratico da parecchio tempo. Poi ho sempre fatto sport nella vita, pur cambiandone molti. Sono passata dal karate, che facevo da piccola, alla danza classica, al pilates. Ho fatto arrampicata, che è una cosa che mi piace moltissimo. Io ho studiato a Trieste, dove ci sono le pareti più belle per arrampicare. È stato molto bello, sono felice di aver fatto questo corso di arrampicata proprio lì, perché mi ha permesso di conoscere Trieste dal punto di vista un po’ più locale. Mi piace molto anche leggere e guardare film. Un’altra cosa che mi piace moltissimo è giocare ai giochi di società, infatti penso di portarmi scarabeo con me in Senegal!

Dicevi che quando eri piccola vivevi in mezzo al verde, qual è il tuo rapporto con la natura?

Ho un attaccamento molto forte alla natura e soprattutto agli animali, motivo per cui ormai un anno e mezzo fa ho scelto di diventare vegana. La mia scelta ha radici molto profonde, perché in Romania, fortunatamente, oltre a stare in mezzo al verde, ho avuto la possibilità di crescere in mezzo agli animali. Noi avevamo delle galline, un maialino con cui io e mia sorella ci divertivamo tantissimo, capretti, poi da mia zia c’erano anche le mucche. Quindi per me è sempre stato molto bello stare con gli animali, li ho sempre apprezzati. Fin da piccola, però, vedere ed assistere alla loro uccisione-era una cosa normalissima in campagna- mi ha sempre fatto stare molto male. Nei primi anni di adolescenza, quindi, ho voluto iniziare un pochino a imporre il mio diritto a non mangiarli, cosa che all’inizio non è stata per nulla apprezzata dalla mia famiglia, però ormai mi appoggiano in questa scelta. Ho un rapporto molto stretto con l’ambiente. In questi ultimi tre anni a Trieste ho sempre scelto di comprare locale, dal fruttivendolo di fiducia. Ho un amico permacultore che mi portava le sue verdure, ho assistito a diverse conferenze e mi sono sempre più appassionata a tutto questo. Cerco quindi di impattare il meno possibile, per quanto io possa. Infatti, sono un po’ preoccupata per lo spreco incredibile, ad esempio di bottiglie, che faremo in Africa.

Parlavi di tua sorella. Anche lei verrà con noi in Senegal, anche se non nel tuo stesso progetto e città. Che rapporto c’è tra di voi, sei contenta di partire con lei?

Noi abbiamo un rapporto molto bello. Siamo sempre state molto unite e abbiamo sempre avuto un rapporto pacifico. Ovviamente negli anni dell’adolescenza è stato tutto un po’ più difficile, com’è normale che sia. Sono molto felice del fatto che lei parta, anche perché diciamo che è lei che mi ha introdotta in questo mondo. Il fatto che lei sia lì, durante questo mio primo viaggio così lungo, è un balsamo per il cuore. Perché, anche se so che potrà essere difficile e impegnativo, e lei sarà distante perché vivrà in un altro comune, so che sarà sempre lì vicino a me. Penso che questo mi farà stare bene.

a cura di Claudia Civera

Chiara Caliari

Chiara Caliari (Progetto CIPSI-COSPE, Senegal: “Dignità e pari opportunità per le donne di Pikine Est e Dakar”)

LEI ASCOLTA

“Lei ascolta, ha bisogno di capire, e poi vedrai che avrà qualcosa da dire”. Ho intervistato Chiara Caliari, una ragazza di 26 anni, sensibile ma anche molto coraggiosa, che ha costruito la sua vita facendo e studiando ciò che la appassiona. Chiara, a primo impatto, può sembrare una persona molto timida, ma questa sua caratteristica le dà una qualità davvero molto importante: la capacità di ascoltare e di entrare in empatia con chi ha di fronte.

Da dove vieni?

Sono di Verona, ma vivo a Napoli da ormai tre anni e mezzo. Dopo il liceo ho frequentato l’università di filosofia di Trento, perché avevo bisogno di un cambiamento. Ho fatto la pendolare durante il primo anno, poi ho trovato un lavoro in una pizzeria d’asporto e mi sono trasferita. Finita la triennale sono rimasta ancora un anno a Trento, poi il mio relatore di tesi mi ha consigliato di continuare gli studi all’Orientale di Napoli, essendo a conoscenza della mia passione per il mondo arabo.

Quando è nata la tua passione per le altre culture?

La cultura araba mi ha sempre appassionata molto. Studiando filosofia mi sono interessata alle diverse religioni e a come viene visto il mondo da un’altra prospettiva. Ho fatto la tesi della triennale sulla questione della apostasia nell’Islam. Ho frequentato l’Orientale per imparare l’arabo, ma ho dovuto cambiare la scelta della lingua e ho deciso di studiare il kiswahili, e fare un percorso di approfondimento sul Nord Africa e Medio Oriente. Poi ho spostato il mio studio sull’Africa Sub-Sahariana per ampliare i miei orizzonti, e la storia di questo continente nel mondo internazionale mi ha appassionata molto, così ho deciso di fare la mia tesi magistrale sulla cooperazione internazionale italiana in Somalia.

Come hai scoperto il mondo della cooperazione nei paesi in via di sviluppo?

Sin da piccola ero molto attiva nell’ambiente della parrocchia e mi piacevano molto i racconti dei missionari sulle loro esperienze. Mi ero anche iscritta alla “Rivista del piccolo missionario” per leggere le testimonianze di queste persone che viaggiavano per tutto il mondo e che cercavano, nel loro piccolo, di dare una mano in situazioni di disagio e disuguaglianza. Ho sempre desiderato diventare parte attiva di questo mondo. Credo di essere una persona molto empatica e portata ad aiutare chi è in difficoltà, cercando innanzitutto di ascoltarlo e poi di trovare una soluzione insieme. Proprio perché sono una persona che sa ascoltare mia madre, quando ero piccola, diceva sempre: “lei ascolta, ha bisogno di capire, e poi vedrai che avrà qualcosa da dire”. Ho sempre pensato che, essendo nata in Occidente e avendo molti agi e fortune, ho il dovere di impegnarmi nel migliorare le condizioni di chi è più sfortunato.

Quando hai scelto la strada del servizio civile?

Dopo essermi laureata, lo scorso luglio, mi sono fermata due mesi per riflettere e valutare le diverse opzioni. Ho preso in considerazione il volontariato, ma non sapevo dove e come cominciare. Allora ho pensato al servizio civile, inizialmente cercando qualcosa in Italia, poi però ho guardato i vari progetti per l’estero e ho scelto “Dignità e pari opportunità per le donne a Dakar e Pikine Est”, in Senegal.

Perché questo progetto?

Perché la tematica dell’uguaglianza e della parità di genere mi è sempre stata molto a cuore. In particolare questo progetto si concentra sull’empowerment femminile, con l’obiettivo di ottenere più autonomia e indipendenza per le donne, con un impegno che va oltre alla sensibilizzazione e si concentra sulla creazione di posti di lavoro e sulla formazione di donne in grado di occuparli. Credo che, lavorando a questo tipo di progetto, si possa rendere la donna parte attiva della società, perché la essa costruisce le fondamenta della società, ma spesso ce ne si dimentica.

Cosa pensi che ti darà questa esperienza?

Sono convinta che crescerò, sicuramente come persona, ma anche dal punto di vista professionale. Penso che mi insegnerà un modo diverso di rapportarmi con I’altro. Mi piacerebbe continuare questo percorso una volta tornata. Vorrei lavorare nell’ambito dell’accoglienza ai migranti, in Italia però, perché penso che ce ne sia molto bisogno. Questa esperienza mi darà anche l’opportunità di vedere quante cose ho da offrire e quanto coraggio ho, perché io ora non ne ho ancora idea, ma sono pronta a scoprirlo.

A cura di Agnese Bosio

Cipsi Onlus

Solidarietà e Cooperazione CIPSI è un coordinamento nazionale, nato nel 1985, che associa oltre 40 organizzazioni non governative di sviluppo (ONGs) ed associazioni che operano nel settore della solidarietà e della cooperazione internazionale. Solidarietà e Cooperazione CIPSI è nato con la finalità di coordinare e promuovere, in totale indipendenza da qualsiasi schieramento politico e confessionale, Campagne nazionali di sensibilizzazione, iniziative di solidarietà e progetti basati su un approccio di partenariato. opera come strumento di coordinamento politico culturale e progettuale, con l’obiettivo di promuovere una nuova cultura della solidarietà.

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