Le Barbados contro i cambiamenti climatici, che ora sono anche cambiamenti politici
di Niccolò Rinaldi
“Se non posso vivere perché non posso coltivare la terra, perché non ho accesso all’acqua, o perché le inondazioni stanno arrivando con un’intensità e una regolarità che mi rendono impossibile sostenere il mio stile di vita, cambierò casa”. Mia Amor Mottley dixit.
Ma chi è la signora Mottley? E a chi rivolgeva questa sequenza di cause ed effetti, questa connessione tra cambiamenti climatici ed emigrazione? A Trump, che nei suoi ordini esecutivi appena eletto non si ha esitato a chiudere le frontiere a rifugiati, a espellere i clandestini e a ad abbandonare l’accordo multilaterale di Parigi. Peccato che la signora Mottley sia “solo” la Prima Ministra delle Barbados, un paese che non rientra nelle visite iniziali di Rubio in centro America, uno Stato composto da un’unica isola, una di quelle belle e apparentemente paradisiache periferie del mondo dove i turisti vanno a gongolare e gozzovigliare in un paesaggio paradisiaco. E davvero la riserva della Flower Forest appare nelle sue flora e fauna collinare un simulacro celestiale.
La loro storia
Un’isola con meno di 300.000 abitanti, quasi tutti di discendenza africana, eredi di quel campo di concentramento che per due secoli furono le Barbados. Qui approdarono oltre 600.000 schiavi africani, il 5% del totale dell’infame tratta. La speranza di vita era minima, per il caldo delle piantagioni di canne da zucchero, per la malnutrizione in particolare nei mesi invernali, per la repressione di ogni insubordinazione, punita con roghi di schiavi vivi, castrazioni, impiccagioni di massa.
Ma anche un’isola che conosce l’arte del riscatto: indipendenza, povertà e riforme, misure contro la crisi dello zucchero negli ’80, la scelta di divenire repubblica tre anni fa, la supremazia del parlamento, e la trasformazione in un’economia del turismo, che da tempo “fattura” più della canna, senza brutture e sostenibile. Ma anche un’isola sempre più aggredita da cicloni, innalzamento del livello del mare ed erosione delle coste, improvvise siccità, un ambiente ostile rispetto al quale si è mobilitata l’intera società delle Barbados, al punto che nella capitale si parla con orgoglio della Bridgetown Initiative, presentata all’ONU nel 2024.
La Bridgetown Iniziative
Non è una locandina di buone intenzioni: è un piano d’azione con varie misure, tra le quali la riduzione del debito e l’attribuzione di cento miliardi di dollari di fondi non utilizzati dallo Special Drawing Rights per creare uno strumento finanziario con il Fondo Monetario Internazionale e altre banche multilaterali a sostegno dei paesi a rischio di minaccia esistenziale per gli effetti avversi del clima. Dice un barbiere da cui vado a tagliarmi i capelli (bottega di legno bianca, tutta linda e col cartellino da vecchi tempi, atmosfera familiare, e un bambino che gioca sul pavimento tra i seggioloni): “In un grande paese come gli stati Uniti, un uragano o uno tsunami spazza via una località, una regione, ma da noi porta via tutta la nazione”. Si badi bene: un barbiere, nemmeno c’è bisogno di scomodare attivisti o autorità, tanto è riflessione diffusa. Del resto, se la Bridgetown Initiative prevede anche un vasto finanziamento del settore privato impegnato nella transizione alla sostenibilità ambientale, questa sensibilità qui ha già plasmato il paesaggio, e girando per le Barbados non ci s’imbatte in grattacieli, parchi acquatici, casinò e altri sprechi energetici: tipici di alcune isole caraibiche, perché costà lo sviluppo è avvenuto con molto maggiore equilibrio che altrove.
Conclusioni
Coi fatti, con parole assennate. Piccoli grandi sforzi concreti, dalle Barbados, che probabilmente si fanno vani ora che con Trump è arrivato uno tsunami forse peggiore. La prima ministra Mia Amor Mottley non tace, ma tuttavia qui si teme che si voglia far tornare la popolazione delle Barbados a una nuova condizione di schiavismo, con l’affermazione di una politica che rinnega la cooperazione multilaterale, che ragiona solo di rapporti di forza, e di conseguenti egoismi, che è il frutto di altro tipo di “cambiamento climatico”.
Le foto presenti nell’articolo sono di Niccolò Rinaldi
